Bussando alle porte dell’ordinario: casa-museo Ettore Guatelli

È una calda mattinata emiliana. Io e la mia ragazza, nel nostro girovagare, siamo diretti alla casa-museo Ettore Guatelli. Il Cartello a lato della strada ci comunica, quasi sottovoce, che siamo a Ozzano Taro, a pochi chilometri da Parma: ormai ci siamo quasi. I pneumatici, dopo l’asfalto, incontrano lo sterrato e i nostri occhi stringono la mano a quel luogo di cui tanto si parlava lungo il tragitto. Non pensavo che un museo potesse apparire così: una grande cascina, povera e mal concia, trasudante d’aria contadina che vagabonda giunge alle nostre narici. Il contesto è così lontano dal nostro ambiente lombardo che ci sembra di esser stati catapultati in un’altra epoca. Passata o futura chissà…

Ammetto…nella mia mente ho già vagato per le stanze di questo museo stando però seduto su una sedia di un’aula accademica. È lì che ho conosciuto il personaggio di Ettore Guatelli: grazie a semplici immagini proiettate capaci però di caricare la molla dei sogni. Sogni di scoperta, sogni erranti, trottole nel mondo e nella testa. Ora sono qui. Il sole mastica il paesaggio e la stanchezza si fa spazio tra le ossa, ma la domanda che rimbalza tra le pareti della mente è solo una: quale ricchezza si nasconde all’interno di questo casolare?

Ad accoglierci una signora che ci confida di aver conosciuto di persona Ettore essendo stata una sua cara amica. Il portone di legno rosicchiato dal tempo si apre e lentamente si entra in un mondo altro. Oggetti, oggetti e ancora oggetti avvolgono e circondano il nostro essere. Raccolti per affinità, per mestiere, per materiali, utensili e manufatti di ogni genere affollano lo spazio delle pareti, dei pavimenti e dei soffitti. Oggetti disposti sui gradini, sui cornicioni delle finestre o appesi alle porte dove le composizioni si fanno complesse o semplificate. I nostri occhi ormai sono saracinesche ribelli che non vogliono chiudersi, sacchi che continuano a riempirsi di meraviglia che non trova il fondo. Ettore è stata una persona che nella sua vita ha raccolto centinaia di migliaia di oggetti. Attrezzi in disuso, cose rotte o buttate via. Girava le discariche, i fienili e le soffitte in cerca non di stranezze ma di oggetti comuni che fanno parte della vita di tutti i giorni: cesti in vimini, scarpe e valige, scatole di latta, barattoli di vetro e martelli. Sarebbe vasto l’elenco degli oggetti raccolti e riuniti in famiglie e io che sto scrivendo, a ripensarci, sono ancora incredulo e stupefatto. La cosa si fa interessante quando questi oggetti, una volta raccolti varcavano la soglia di casa sua. Infatti non rimaneva un semplice insieme di testimonianza rurale, ma il tutto si trasformava in atto creativo. Ettore passava le giornate in un processo di costruzione, decostruzione e ricostruzione dei suoi ambienti. Le posate trovavano un loro spazio armonico sulle pareti, le botti o i giochi una loro composizione tra gli scaffali, gli orologi una stanza tutta loro. Lo spazio negli anni è stato trasformato da Ettore in un’opera d’arte viva. Di solito musealizzare un oggetto vuol dire fargli perdere l’anima, l’essenza e l’utilizzo per cui è stato costruito e ciò coincide con la sua morte. Qui non accade nulla di tutto ciò. Qui l’atto creativo, libero e ramingo trasforma e vitalizza lo spazio donando valore alle storie universali dell’umanità. Ecco forse la ricchezza di questo luogo: quest’atto e questo fare anticipano l’arte e ne stanno alla base e quindi alle fondamenta del potere terapeutico dell’arte. A mostrarsi è il valore del comune e dell’ordinario che ogni giorno abbiamo a portata di mano, ma che, per consuetudine, per pigrizia o forse per snobismo non sappiamo più riconoscere. Cosa possono dirci ormai questi oggetti vecchi e consunti? Il tempo è una questione strana poiché anche se una cosa sembra antica e passata essa allo stesso tempo ci è contemporanea poiché vive con noi nel tempo. Un oggetto (e perché no, anche un’opera d’arte) vecchio di cent’anni può ancora interrogarci sul nostro presente. Il nostro presente siamo noi e più troviamo risposte alle nostre domande più cresciamo. È questo che fa l’arte ed è questo che ho ritrovato percorrendo gli spazi di questa casa-museo creata e voluta in maniera volontaria dal suo autore.

Ettore non era pazzo, non era il clima che ha perso le sue stagioni. Raccoglieva le storie degli individui che trasmesse e passate per quegli oggetti avevano occasione di riappropriarsi di quel valore umano. Par di pensare che sia vero quel che sosteneva Benjamin, ovvero che il collezionista, o raccoglitore di storie come mi piace chiamarlo, intraprende una lotta costante contro la dispersione. Nel museo questo lo si annusa ad ogni angolo, lo si sente sulle punte delle dita e lo si assapora con gli occhi. La messa in mostra del banale nasce dal bisogno di mantenere e trasmettere contrastando così l’oblio dell’umanità verso se stessa che è la vera minaccia dei nostri tempi. Il fare creativo che sta alla base dell’arte terapeutica può essere un potente strumento a tal fine.

Ettore è stato un raccoglitore dell’ovvio, ma l’ovvio sa essere eccezionale e senza annunci, senza show o proclami squillanti lo ha messo in pratica e ce lo ha mostrato. L’ovvio e il comune sono eccezionali perché san parlare di quel che siamo ed è attraverso questo che possiamo conoscere noi stessi. Non è conoscendo meglio se stessi che si può iniziare a star meglio nel mondo?

Testo di Francesco Serenthà

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