Tra le pieghe del paesaggio

Cosa è un paesaggio?

Cosa del nostro vivere e trascorrere minuti, ore e giorni su questo pianeta può chiamarsi paesaggio?

Ho provato a fare le medesime domande a dei bambini durante un laboratorio:

Nel mondo ci sono tanti paesaggi e ci sono tante persone che abitano nelle case delle città; e poi ci sono anche il mare dove fa tanto caldo e la montagna dove fa tanto freddo.

Questa risposta risulta forse meno completa di quella istituzionale della lingua italiana che potremmo trovare per esempio in un dizionario però credo sia globalmente più affascinante. In quest’ultima entra in gioco la parola persone e ciò che forse è detto con ingenuità in realtà si rivela importante. Il paesaggio esiste non solo tra le alte catene montuose, tra i dolci pendii collinari, tra lo skyline cittadino, ma esiste dove esiste una persona e dove questa persona è capace di scorgerlo, dove si è in grado di tracciare una linea dell’orizzonte. Allora un paesaggio esisterà sì nelle varianti poco sopra citate, ma anche in una singola via, in pochi sassi trovati a terra, tra le pieghe di una tenda, su una parete o tra le sfumature di colore di alcuni oggetti su un tavolo: esistono anche scenari che vengono quotidianamente percepiti camminando per strada o affacciandosi ad una finestra ma anche quelli che dormono latenti intorno (dentro?) noi: paesaggi del mistero, nascosti al di sopra e al di sotto dell’orizzonte, al di qua e al di là di un confine, paesaggi della memoria, della mente, scovati sul rovescio delle cose. Siamo immersi in un costante fluire di paesaggi e si tratta solo di scoprirli. Inoltre l’uomo è esso stesso un territorio, nel suo corpo e nella sua mente e come ciò si nutre dell’ambiente.

Ma perché è importante parlare di paesaggio? Perché in fondo è un po’ come parlare di noi.

Negli ultimi decenni si è sviluppato un crescente interesse verso la relazione tra spazio e individuo e un forte contributo lo ha portato la prossemica, disciplina volta a indagare lo spazio come fatto comunicativo sul piano psicologico e antropologico e che si interroga sull’uso umano dello spazio. Ciò ha la funzione di approfondire le metodologie operative che riguardano questo complesso rapporto che si presenta come una medaglia dalla duplice faccia: da un lato è l’ambiente che influenza l’uomo e il suo comportamento, mentre dall’altro c’è l’uomo che tende inevitabilmente a modificare l’ambiente stesso. Questo rapporto ha avuto origine sin dalla notte dei tempi, sin da quando le mani di un uomo hanno lasciato una traccia di colore sulle pareti di una buia e umida grotta. Mi chiedo se ci fermiamo mai ad osservare o pensare ai luoghi in cui lavoriamo, impariamo, ci relazioniamo con gli altri o semplicemente passiamo il nostro tempo. Essi non sono elementi neutri nel nostro vivere quotidiano e condizionano il nostro comportamento, il nostro stato emotivo, il nostro sentirci bene o a disagio. Come tutte le cose anche l’ambiente circostante possiede un suo linguaggio e comunica verso l’esterno: comprendere questo linguaggio entrando in contatto con lo spazio vuol dire aprire le porte alla cura del sé utilizzando questa energia in modo positivo e costruttivo. Lo spazio è sì un contenitore del nostro vivere, ma non dobbiamo pensarlo come recipiente passivo come la carta dei regali, dove a noi ciò che interessa di più è il contenuto. Impariamo a pensare allo spazio come se esso fosse il mare per i pesci o per la barriera corallina, dove sì la bellezza è contenuta al suo interno ma dove, senza di esso, questa bellezza morirebbe. Lo spazio è quindi un elemento significativo della nostra esperienza quotidiana da trattare e progettare con cura.

Dal prendersi cura del luogo al prendersi cura di noi stessi il passo è breve. Pensiamo per esempio alle nostre città: “…E poi coi secchi di vernice coloriamo tutti i muri, case, vicoli e palazzi, perché lei ama i colori” recita una vecchia canzone. Ora, solo per un momento, immaginiamo che il soggetto a cui si rivolge la poesia non sia una donna, ma sia una città. Quanto farebbe bene un po’ di colore nelle nostre città, nelle nostre periferie e nelle nostre giornate!

Perché non poter vivere il territorio creativamente? Perché non poter vedere come i paesaggi che circondano la nostra quotidianità possano rispondere al nostro bisogno di benessere individuale e sociale?

Non solo del colore voglio parlare, ma il concetto che voglio esprimere è più globale: intervenire in modo artistico e creativo con il paesaggio non vuol dire manomettere e plasmare il territorio per ogni futile bisogno, ma significa rendere il territorio partecipe del nostro vivere quotidiano, vuol dire vivere attivamente lo spazio che ci avvolge e non passivamente come qualcosa che si subisce, ma come qualcosa che ci contiene. Prendersi cura dei luoghi della propria quotidianità vuol dire prendersi cura di se stessi. Arte e musica, la conoscenza e il loro fare creativo rendono possibile tutto ciò. L’arte, quella che si prende cura di noi (se lo vogliamo), non può essere solo quella a pagamento, troppo spesso mercificata e portata da un eccesso all’altro, ma è anche e forse soprattutto quella che ci sta intorno: “l’arte è un fatto ambientale” scrive Tomaso Montanari. Abituati come siamo dalla nostra società a vivere per singoli eventi, singole immagini o singole idee abbiamo dell’arte il medesimo pensiero. Di essa però non esiste mai la singola opera, come ci inducono troppo spesso a pensare musei e mostre confezionate appositamente, ma “l’arte è una relazione tra le opere”, scrive sempre Montanari e mi viene da aggiungere tra le opere e noi. Il paesaggio, nelle sue molteplici forme è l’arte del quotidiano. Ecco perché personalmente ritengo sia importante parlare di paesaggio, ma parlarne seriamente, anche con se stessi o quantomeno ragionare su come tutto quello che ci circonda, composto da quegli infiniti scenari che si intersecano ad ogni istante vissuto, possa prendersi cura di noi e noi di lui grazie anche all’aiuto dell’arte, della creazione di un’immagine o di una melodia.

Testo di Francesco Serenthà

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