Un viaggio dal nome Atlante: Luigi Ghirri

Apro un libro dal nome Atlante e inizio a camminare per le sue pagine. Camminare, come verbo, non è troppo sbagliato perché è proprio questo che l’occhio comincia a fare sulla superficie di carta. Il nome del libro è alquanto azzeccato poiché il susseguirsi delle pagine mostra diverse fotografie con porzioni di territori e, su questi, i tipici simboli e segni di una cartina. I fiumi, i laghi, le zone erbose, piante e città, nomenclatura e cifre, paralleli e meridiani.  Senza poi contare le fotografie della mappatura del cielo con le sue stelle e costellazioni. Quello che sto sfogliando però non è un classico atlante geografico ma è una serie fotografica di Luigi Ghirri risalente agli anni settanta. All’osservatore potrà giustamente sembrare un lavoro strano per un fotografo, fuori dal comune per chi si aspetta scatti da foto-cartolina, ritratti o reportage. Infatti il fotografo ci propone tutt’altro: un viaggio sedentario in un atlante che racchiude simbolicamente tutto il mondo. Un viaggio sulla carta, universale, che però essendo già tutto scritto pare già vissuto e scoperto. Il viaggio che annulla il viaggio come dice lui stesso. Un mondo che si dispiega sulla carta e che sembra del tutto esplorato.

Il discorso di Ghirri, quello che pare proporci con questo saggio fotografico scava profondamente nel significato delle immagini, nel loro rapporto con l’uomo e nel dialogo che ha con segni e simboli. Si può anche pensare che il fotografo indagando l’immagine del mondo, costruito tra memorie ed esperienza, si dedichi anche all’universalità del mondo interiore e perciò anche alla formazione e alla cura di sé. Si dedica al mondo quale paesaggio che appartiene alle persone che lo vivono e alle cose che lo abitano. Forse non si possono definire belle fotografie o comunque quelle che ci si aspetterebbe come tali. Penso però siano buone fotografie, aderendo alla linea di pensiero di fotografi come Berengo Gardin o Mulas che distinguono la bella fotografia dalla buona fotografia. Quest’ultima, anche se formalmente non perfetta, racconta qualcosa di sé, del mondo, di chi l’ha scattata e di chi la fruisce. Il bello dell’arte sta proprio in questo: una singola opera, inserita nel suo contesto, si apre ad un ventaglio di letture che possono essere molto differenti tra loro. Tutte legittime in quanto ognuno di noi è una testa pensante: letture più ragionate e altre meno, coscienti con esperienza alle spalle e altre no. Non importa, l’arte non è esclusiva ed elitaria, si concede a chi vuole accoglierla. Non è nulla di sacro o spirituale calata per nascita da un dio qualunque. È un fatto umano e la creazione quanto la fruizione lo restano profondamente. La sua fruizione, se ragionata, quindi può essere l’ingrediente per farci sentire più umani anche se a volte l’arte, con le sue immagini oniriche, simboliche o concrete e sensoriali, ha il potere di trasportarci altrove. Questo però non lo fa da sola, lo fa grazie a noi stessi che siamo lì di fronte ad osservarla. Senza presunzione penso sia questo uno dei compiti dell’arte, o uno tra i tanti che le abbiamo attribuito: far viaggiare e aprire la mente, riflettere, imparare e conoscere. Tutto questo per affrancarci maggiormente al modo in cui viviamo. Perché solo così possiamo dar valore a noi stessi, alle nostre vite e alle cose che facciamo. Ed è per questo che ritengo la buona fotografia un potente mezzo terapeutico. Non a supporto di altri ma capitana di se stessa. Che sia un documento storico, in bianco e nero o a colori, un paesaggio, dettagli o macro-porzioni, ogni fotografia a cui ci troviamo di fronte, se buona, ci pone davanti a noi stessi, anche quando apparentemente non c’entra nulla con noi.

Si tratta solo di evadere. Evasione perché fare e osservare buone fotografie aiuta a spostare il punto di vista sulle cose, a muovere il nostro sguardo nel mondo e sul mondo. Queste fotografie di Ghirri sono un momento d’evasione e quest’ultima è una veste che forse possiamo adagiare sulla fotografia con la F maiuscola. Fotografare per accedere a piccoli istanti d’evasione e intensi stati di stupore. L’evasione non è per forza qualcosa che va contro questo mondo, non vuole uscirne e non vuole annullarlo. Essa accade proprio grazie al mondo, al suo interno cresce e gli dona valore.

Testo di Francesco Serenthà

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